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Maurizio Artusi
Cous Cous Fest 2009PDFStampaE-mail
Sabato 03 Ottobre 2009 01:00
Scritto da Maurizio Artusi


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A San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, si svolge ormai da 12 anni il Cous Cous Fest, momento di confronto e fratellanza tra popolazioni diverse per cultura e tradizioni ma accomunate da un piatto di semola incocciata. L’edizione 2009 ha visto vincitore, secondo me immeritatamente, lo chef torinese Enrico Bricarello già selezionato a rappresentare l’Italia tra gli chef nazionali partecipanti al Cous Cous Fish di Giugno dove ho potuto assaggiare i suoi piatti. Tra il 22 e il 27 Settembre si sono succedute gare e laboratori di degustazione di elevato livello con una massiccia partecipazione di turisti soprattutto italiani, da Napoli in su, che hanno letteralmente azzerato le presenze dei visitatori siciliani.

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Porticciolo di San Vito Lo Capo

I laboratori di degustazione hanno potuto vantare i migliori nomi della ristorazione siciliana, la spettacolarità della poesia di Carmelo Chiaramonte, la tecnica di Pino Cuttaia e l’estro creativo, non privo di contrasti e innovazione, di Ciccio Sultano. I tre laboratori, condotti dagli inossidabili giornalisti enogastronomici Nino Aiello e Giancarlo Lo Sicco, si sono potuti realizzare grazie allo sponsor Electrolux il quale, però, come contropartita, ha occupato quasi tutti i 100 posti disponibili sotto il tendone allestito per l’occasione, ben poche persone esterne all’entourage Electrolux sono riuscite a sedersi e degustare le pietanze degli chef io stesso non sono riuscito ad assaporare l’operato di Ciccio Sultano.

Mercoledì 23 Settembre, con quasi due ore di ritardo sull’orario convenuto delle 16, si inizia con “Cous Cous fu” questo è il titolo della performance di Carmelo Chiaramonte dove il poliedrico “cuciniere errante”, come lui stesso ama definirsi, riversa la musicalità della letteratura siciliana su due piatti da lui creati con diverse varianti.

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Carmelo Chiaramonte

L’eclettico maestro dalle mille esperienze, che in passato ha “cucinato” pure il vetro, smonta il codice di cottura e rimonta la metrica delle parole facendo corrispondere ad una sillaba un granello di cous cous ed ecco che magicamente il cibo “accade”. Per convenzione continuerò a definire “piatti” e “portate” le esperienze che descriverò in seguito, ma sappiate che è un termine molto riduttivo che non rende l’idea dell’esperienza goduta.

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Ganzirri Capo Passero San Vito Lo Capo
 
 
 

Il primo piatto è il “Tri Tri Tri”, un richiamo alle tre punte della Sicilia, Ganzirri, Capo Passero e San Vito Lo Capo, costituito da un cous cous sapientemente aromatizzato durante la cottura a vapore con citronella e altri aromi e un quenelle di ricotta vaccina, a tale base in successione separata sono stati accoppiati tre condimenti rappresentati appunto le tre punte della Sicilia. Il condimento numero uno era costituito da una ghiotta di pesce spada caratteristica della zona di Messina, scendendo a Capo Passero il condimento è diventato un’insalata di pomodorini, tonno salato sedano e cipolla per poi passare al sugo di maiale con salsiccia che ha visto anche la partecipazione della quenelle di ricotta finora rimasta solo a far da decorazione. Un piatto multiplo ricco di promesse poi mantenute, profumi precisi ma ben amalgamati, una vera sorpresa per il palato e per gli occhi. Naturalmente non potevano mancare dei vini all’altezza della situazione, tre diverse bottiglie sono state selezionate per la degustazione, una per ciascuna delle zone della Sicilia descritte prima. Gli accoppiamenti consigliati non sono stati da me graditi, avrei infatti cambiato l’ordine per abbinarli ai tre condimenti con una maggiore assonanza, ma l’esclusività e la qualità degli stessi non aveva eguali. Il primo vino è stato una Malvasia delle Eolie Capofaro di Tasca d’Almerita, salmastra e leggermente abboccata, il secondo una marsala Vecchio Samperi 1998 di De Bartoli le cui note di caffé erano quasi imbarazzanti per poi chiudere con un Josephine Dorè, sempre di De Bartoli ma proveniente dalla riserva personale di Carmelo, un raro vino rosso sapientemente addolcito, spesso usato per accompagnare la cioccolata, le cui note fortissime di rosa canina rendevano inebriante il bicchiere.
 
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Le radici e il mare Le radici, il mare, il sangue e la terra
 
 

La seconda portata, “Kuturru, antenato del cous cous”, ha avuto come tema le radici, la terra, il mare e il sangue. Infatti al posto del cous cous troviamo del grano (le radici) con gamberetti e totano (il mare) il quale ha poi visto due condimenti, una zucchina lagenaria stufata (la terra) e dei fegatini di vitello e pollo in padella (il sangue). Il vino in questo caso non c’era in quanto il tutto è stato annaffiato con del… the caldo di cipolla cotta e cruda ! Che dire, inusuali sapori apparentemente slegati ma uniti dalla fatica dell’uomo.
Carmelo Chiaramonte ha dimostrato ancora una volta, se ce ne fosse mai stato bisogno, la sua ecletticità e la sua poliedricità che lo ha reso incompatibile con gli schemi di una cucina collocata nell’ambito di un ristorante ed ecco perché ormai lui “erra”, solo così può dare libero sfogo alla sua creatività, liberandosi esso stesso dalla prigione dei fornelli può finalmente a sua volta liberare anche il recluso della tavola che assaggia i suoi piatti. La sua indole lo trascina a cercare contatto e soddisfazione del pubblico infatti una volta scoperta la presenza in sala di due vegetariani ha servito lui stesso i piatti di Kuturro in versione senza pesce ne carne.

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Maurizio Artusi e Carmelo Chiaramonte
 

Giovedì 24 Settembre
, sempre alle ore 16, si riprende con Pino Cuttaia, l’emergente chef siciliano di Licata con il suo ristorante La Madia che ha di recente avuto la sua prima stella Michelin.

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Nino Aiello, Pino Cuttaia e Giancarlo Lo Sicco

L’argomento del laboratorio è il cous cous tra la terra e il mare, il primo piatto scelto da Pino è il “Cous cous con gambero rosso e pistacchio di Raffadali”. Pino ha spiegato e dimostrato passo per passo come realizzarlo ed ecco la ricetta.
 
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Cous cous con gambero rosso e pistacchio di Raffadali

Tostare in padella con poco olio e sale grosso delle bucce di gambero rosso pestate e senza le teste quindi togliere dal fuoco e aggiungervi del ghiaccio, grazie allo shock termico tutto il sapore di gambero arrostito simulato dalla tostatura passerà dalle bucce all’acqua che si formerà dopo lo scioglimento del ghiaccio. A parte preparare un battuto d’aglio e cipolla quindi aggiungervi il midollo del gambero ricavato spremendone le teste e infine del concentrato di pomodoro. Filtrare il liquido del gambero tostato aggiungendolo alla salsa così ottenuta. Insaporire il cous cous con la salsa mescolando bene e cuocerlo a vapore per 10 minuti. Saltare in padella con un filo d’olio, un pizzico di sale e un pezzetto d’aglio i gamberi puliti dalla buccia ma con le loro teste e code ancora attaccate. Aggiungere al cous cous una granella di pistacchio e servire con la zuppa decorando con i gamberi.

I sapori chiari ma solo apparentemente delicati, il gambero “arrostito” torna prepotente anche dopo aver finito di mangiare, mi hanno impressionato molto favorevolmente, effettivamente Pino è riuscito con tecnica e materia a unire piacevolmente il mare del gambero con il pistacchio della terra.
Il vino che ha accompagnato il tutto è stato l’Inzolia di Fazio, di corpo anche se non eccelso nei profumi.
Infine è stata la volta del dessert, la seconda portata era infatti costituita da un cous cous di seppia che ha impreziosito una mousse al cioccolato ed ecco appunto il “Cous cous di seppia e cioccolato” ancora il mare della seppia e la terra del cioccolato.

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Couscous di seppia e cioccolato

In questo caso Pino non ha spiegato tutto il piatto ma si è limitato ad illustrare la difficile e lunga tecnica di preparazione del cous cous di seppia ottenuto facendo essiccare a bassa temperatura delle teste di seppia e poi, una volta secche, frullate per ottenere una farina la quale viene poi incocciata come se fosse semola per cous cous ed infine tostata in padella. Tanto di cappello alla seppia che però così trattata ha conservato soltanto il salmastro perdendo tutti gli aromi del pesce, la pallina di mousse era adagiata su un letto di marmellata di arance che a me è sembrata più al limone che alle arance inoltre era troppo gelificata e questo neanche la faceva sembrare una marmellata, il cioccolato utilizzato per la mousse non era di grande qualità, il suo aroma era abboccato e piacevole ben si accoppiava bene con l’insieme ma mancava di spessore e persistenza, alla mia domanda fatta in pubblico sulla sua provenienza ho ricevuto un diniego abbastanza sgarbato, segno che evidentemente avevo toccato un nervo scoperto per poi scoprire, parlando a quattrocchi con Pino, che aveva usato un prodotto distribuito dalla ditta Amadori di Genova e che ipotizzava si trattasse di cioccolato sudamericano come da me comunque immaginato. Probabilmente Pino, in giornata storta, aveva infatti già ripetutamente ignorato le insistenti domande di Aiello e Lo Sicco che lo sollecitavano a parlare della sua biografia e di come fosse diventato chef, origini peraltro pubbliche in quanto scritte sul sito del suo ristorante, e ha interpretato come polemica la mia domanda sul tipo di cioccolato liberandosene con una risposta maldestra e inadeguata inutilmente seguita da delle pubbliche scuse.
Il vino bevuto con il dessert è stato un Muller Thurgau di Fazio, corposo considerando il tipo di vitigno ma non sufficientemente aromatico e troppo acido per ben accompagnare il piatto in questione.
Concludo con un evidente giudizio negativo su tutti i fronti del dessert, secondo me gli ingredienti di un piatto si devono poter riconoscere facilmente e le troppe manipolazioni, in questo caso sulla seppia ma soprattutto sulla marmellata, vanno in una direzione contraria all’identificazione delle materie prime utilizzate, tecnica si ma senza stravolgere o perdere i sapori originali degli ingredienti, non si deve indurre in confusione colui che mangia una marmellata di arance costringendolo a confonderla con una gelatina al limone, inoltre, a prescindere dalla stella Michelin, chi cucina seguendo dei criteri di qualità non può ignorare la provenienza di un cioccolato utilizzato per un suo dessert, di ciò deve costantemente rendere conto a se stesso, al suo pubblico e ai suoi clienti.

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Pino Cuttaia e Maurizio Artusi

Il secondo laboratorio del pomeriggio alle ore 19 aveva come titolo ”Le delizie dello Zingaro” riferendosi alla importantissima “Riserva dello Zingaro” situata proprio nei pressi di San Vito Lo Capo. In effetti la riserva è uno scrigno di flora “da cucina” di cui molte specie ormai difficili da trovare, carrube, nespole d’inverno (sorbe), capperi, mirto, more selvatiche, pistacchi, alloro, peperoncino, finocchio selvatico, il mandorlo, il frassino da manna e tante altre piante che a tavola potrebbero far felici molti gourmet.
Gli invitati d’onore al laboratorio sono stati Salvatore Cappello ed il suo collaboratore chef Rodolfo D’Agrusa, Salvatore è un noto pasticciere palermitano conosciutissimo per le sue Cassate Siciliane e la Torta Sette Veli per la quale ha una irrisolta competizione con Turi Cerniglia di San Giuseppe Jato. In aiuto ad Aiello e Lo Sicco è arrivata anche Laura Ravaioli, chef e scrittrice nonché conduttrice di programmi di cucina, che ha subito preso le redini della conduzione dimostrando di apprezzare molto l’operato di Cappello.
Sono intervenuti anche esponenti dell’assessorato agricoltura e foreste, della direzione della “Riserva dello Zingaro” e Giulio Gerardi, uno dei pochi produttori di manna rimasti sulle Madonie.

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Salvatore Cappello, Laura Ravaioli e Rodolfo D'Agrusa

Cappello ha presentato un cous cous dolce di pistacchi realizzato quasi esclusivamente con ingredienti provenienti dalla riserva dello Zingaro, una sua personalissima interpretazione dell’omonima preparazione, con segretissima ricetta, delle suore del Monastero di Santo Spirito di Agrigento.

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Couscous dolce di Salvatore Cappello
 
 
 

Caramello di carrube, pistacchi pralinati, more selvatiche, sciroppo di manna, alloro, spezie e cottura a vapore per un cous cous dolce tra i più buoni che io abbia mai mangiato, qualcuno potrebbe pensare che con tutte questi dolcissimi ingredienti il risultato finale potesse anche apparire stucchevole e appiattito invece sta proprio qui la bravura di un maestro pasticciere, prima regola diventare padroni dello zucchero e piegarlo alle proprie volontà, farlo scomparire e apparire quasi a comando e comunque mai a sproposito, posso affermare che a Cappello questo gioco è perfettamente riuscito e gli aromi esplodevano in bocca al punto giusto senza essere coperti dalle note dolci che a volte scomparivano per poi riemergere quando chiamate al loro dovere.Eccellente e ben accoppiato il vino che ha accompagnato il piatto, si tratta del Don Nuzzo delle Cantine Gulino, una pregiata vinificazione Doc del più antico vitigno italiano di cui si ha notizia: il Moscato di Siracusa.
Infine sono stati serviti dei cioccolatini e dei trancini di mousse e bavaresi al cioccolato con l’uso di due cru di cacao che purtroppo non sono riuscito ad assaggiare in quanto in numero non sufficiente ad accontentare tutti.

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Rodolfo D'Agrusa, Maurizio Artusi e Salvatore Cappello
 
 

Venerdì 25 Settembre è la volta di Ciccio Sultano con la sua “variante” che ha ispirato la filosofia culinaria del suo locale Ristorante Duomo a Ragusa Ibla, il titolo del laboratorio, “La variante Sultano, tradizione, innovazione, modernità”, descrive perfettamente la cucina di Ciccio ma scopriamo i piatti che ha preparato.
Sultano ha scelto di presentare le sue creazioni in una vesta che tanto va di moda per adesso, quella del finger food, la sua cucina salta lo schema dolce-salato, un vero contrasto nel rispetto della classicità senza rinunciare agli equilibri.
Il primo piatto era composto da una insalata di mare con mozzarella di bufala, seguito dalla seconda portata costituito da un cous cous con cozza gambero e cernia per concludere con un cous cous dolce di pistacchi di Raffadali e scorza di arancia semi candita con sorbetto alla lavanda e limone che ho avuto la possibilità di assaggiare ma che non mi ha lasciato una bella impressione, a differenza dell’analogo piatto preparato da Cappello quello di Sultano presentava una stucchevolezza eccessiva e fastidiosa mitigata solo in parte dal sorbetto alla lavanda, per finire al pistacchio erano state aggiunte delle mandorle non perfettamente pelate la cui buccia ha contrastato il sapore del pistacchio in modo veramente fastidioso: una vera delusione ! Inoltre la scelta di utilizzare molluschi e crostacei spesso poco cotti è stato un’azzardo considerando la platea costituita da persone tra le più disparate, non tutti infatti tollerano questi prodotti del mare e il pesce crudo o semi crudo. Trovo in ogni caso svilente presentare delle realizzazioni simili in una coppetta da finger food e in ogni modo inadeguato per un due stelle Michelin come Ciccio Sultano.

 
 
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Il vino che ha accompagnato i primi due piatti di pesce di Sultano è stato l’onnipresente Muller Thurgau di Fazio.

 
 
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Ciccio Sultano e Maurizio Artusi

Ciccio Sultano mi ha un pò deluso con il Cous Cous dolce ma, non avendo potuto assaggiare le altre sue preparazioni delle quali posso giudicare solo la presentazione, non mi sono potuto fare un’idea completa sulle sue realizzazioni per cui rimando le mie impressioni ad atre più propizie occasioni nel frattempo a lui l’onere di tenere alte le uniche due stelle Michelin assegnate in Sicilia.
 
 
 
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I dieci rappresentanti delle cantine partecipanti alla degustazione
 

L’ultimo laboratorio del pomeriggio delle ore 19 è stato invece organizzato dal rivista enogastronomia online Cronache di Gusto, sapientemente diretta da un vero appassionato come Fabrizio Carrera, ormai non nuova a queste esclusive degustazioni. L’obiettivo della serata era di eleggere, tramite votazione del pubblico in sala, il più piacevole tra i dieci vini bianchi aromatici in degustazione. I vini in degustazione sono stati in sequenza di assaggio:

 
 

Cantina

Vino

Grad.

Uve

Note

Brignano

Kue

13

Inzolia, viognier

7

Sbilanciato in acidità, poco corpo

Settesoli

Fiano

13,5

Fiano

6,5

Piatto al naso

Ottoventi

Bianco

13

Catarratto, grillo, zibibbo

10

Fiori bianchi al naso, ben bilanciato

Fazio

Muller Thurgau

12,5

Muller Thurgau

8

Piatto al naso ma bilanciato e ben strutturato

Castellucci-Miano

Shiarà

13,5

Catarratto

11

Crosta di pane al naso, in bocca gelsomino, ben strutturato

Maurigi

Coste all’ombra

13

Sauvignon e il 10% di chardonnay

11

Classico sauvignon, acidità ben bilanciata, forse al naso promette troppo e in bocca poi non si hanno le stesse conferme

Pupillo

Cyane

13

Moscato di Siracusa

8

Zagara, ben bilanciato in acidità

Gorghi Tondi

Rajah

14

Zibibbo

12

Pesca e melone

Miceli

Yrnm

13

Zibibbo

12

Zagara, erbe balsamiche, bilanciato

Abraxas

Kuddia del gallo

13,5

Zibibbo, viognier

15

Un pò piatto al naso ma ben bilanciato in acidità


Nella mia classifica, in progressione fino al più piacevole, sono entrati: lo Shiarà, l’Ottoventi Bianco, il Cyane, il Coste all’ombra ed infine l’Yrnm che infine ho votato. Ottima la conduzione di Carrera che ha saputo tirare fuori da ogni rappresentate delle cantine le informazione più importanti per ogni degustazione compreso il prezzo indicativo sullo scaffale dell’enoteca, anche questa volta un evento interessante ed esclusivo. 
 

Termino con un giudizio della manifestazione sicuramente positivo, soprattutto sotto il punto di vista turistico, una kermess che ormai da anni attrae visitatori da tutta Italia e dall’estero. Quest’anno, grazie al contributo dello sponsor Electrolux, si sono mossi i più conosciuti e stellati chef siciliani e sarà difficile superarsi l’anno prossimo, tra dodici mesi vedremo come andrà a finire questa sfida ! Appuntamento al Cous Cous Fest 2010.

Foto della manifestazione

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In questo caso Pino non ha spiegato tutto il piatto ma si è limitato ad illustrare la difficile e lunga tecnica di preparazione del cous cous di seppia ottenuto facendo essiccare a bassa temperatura delle teste di seppia e poi, una volta secche, frullate per ottenere una farina la quale viene poi incocciata come se fosse semola per cous cous ed infine tostata in padella. Tanto di cappello alla seppia che però così trattata ha conservato soltanto il salmastro perdendo tutti gli aromi del pesce, la pallina di mousse era adagiata su un letto di marmellata di arance che a me è sembrata più al limone che alle arance inoltre era troppo gelificata e questo neanche la faceva sembrare una marmellata, il cioccolato utilizzato per la mousse non era di grande qualità, il suo aroma era abboccato e piacevole ben si accoppiava bene con l’insieme ma mancava di spessore e persistenza, alla mia domanda fatta in pubblico sulla sua provenienza ho ricevuto un diniego abbastanza sgarbato, segno che evidentemente avevo toccato un nervo scoperto per poi scoprire, parlando a quattrocchi con Pino, che aveva usato un prodotto distribuito dalla ditta Amadori di Genova e che ipotizzava si trattasse di cioccolato sudamericano come da me comunque immaginato. Probabilmente Pino, in giornata storta, aveva infatti già ripetutamente ignorato le insistenti domande di Aiello e Lo Sicco che lo sollecitavano a parlare della sua biografia e di come fosse diventato chef, origini peraltro pubbliche in quanto scritte sul sito del suo ristorante, e ha interpretato come polemica la mia domanda sul tipo di cioccolato liberandosene con una risposta maldestra e inadeguata inutilmente seguita da delle pubbliche scuse.

Il vino bevuto con il dessert è stato un Muller Thurgau di Fazio, corposo considerando il tipo di vitigno ma non sufficientemente aromatico e troppo acido per ben accompagnare il piatto in questione.

Concludo con un evidente giudizio negativo su tutti i fronti del dessert, secondo me gli ingredienti di un piatto si devono poter riconoscere facilmente e le troppe manipolazioni, in questo caso sulla seppia ma soprattutto sulla marmellata, vanno in una direzione contraria all’identificazione delle materie prime utilizzate, tecnica si ma senza stravolgere o perdere i sapori originali degli ingredienti, non si deve indurre in confusione colui che mangia una marmellata di arance costringendolo a confonderla con una gelatina al limone, inoltre, a prescindere dalla stella Michelin, chi cucina seguendo dei criteri di qualità non può ignorare la provenienza di un cioccolato utilizzato per un suo dessert, di ciò deve costantemente rendere conto a se stesso, al suo pubblico e ai suoi clienti.


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